revisione di un articolo pubblicato da Federico Batini nella Rivista dell’Istruzione nel 2005
1. Venti anni di riforme
Nel ventennio 1984-2004 i paesi dell’Unione Europea sono stati profondamente interessati da riforme dei sistemi di istruzione, in particolare si assiste, assieme alle logiche, e sostanziali, differenze, ad una direttrice comune: la differente ripartizione delle responsabilità decisionali dal livello centrale al livello locale, regionale e di singolo istituto (processo peraltro simile, con differenze cronologiche, in tutti i paesi del cosiddetto “mondo occidentale”).
Il movimento può dunque essere sintetizzato come un progressivo decentramento o delega dei poteri alla società con l’obiettivo dell’aumento della partecipazione della “comunità educativa” al processo decisionale. Le motivazioni a favore di una tale re-impostazione dell’amministrazione scolastica sono ben noti:
- maggiore efficacia: le istituzioni locali hanno migliore conoscenza della situazione e sono in grado di mettere in campo con maggiore velocità soluzioni e dunque possono meglio definire i bisogni e gestire le risorse;
- maggiore partecipazione: i servizi divengono più accessibili agli utenti e quindi i cittadini partecipano maggiormente (con l’ovvio corollario di avere l’autorità decisionale più vicina e dunque più accessibile);
- maggiore adattamento del modello organizzativo: le istituzioni locali conoscono le particolarità regionali e locali e sono dunque in grado di adattare i modelli.
A questi elementi, ampiamente trattati e sviscerati non soltanto per gli addetti ai lavori, ma anche nei media, si aggiunge l’affermarsi del concetto politico di sussidiarietà che presuppone la necessità di avvicinare la decisione (e l’azione conseguente) al cittadino in modo da democratizzare il potere (decentramento decisionale alle entità territoriali intermedie che partecipano attraverso organi rappresentativi democraticamente eletti).
Per determinare il grado di decentramento dell’amministrazione scolastica di un paese occorre prendere in considerazione alcuni elementi, quali:
- l’ordinamento del sistema scolastico: chi decide quale sia il numero di cicli, il numero di anni dai quali ciascun ciclo è composto, i criteri ed i requisiti per il passaggio da un ciclo all’altro?
- la scelta dei curricoli: chi decide gli obiettivi, i contenuti per perseguirli, i metodi, i criteri di valutazione per ogni ciclo o tappa?
- il personale docente e non: chi assume gli insegnanti e il personale non docente, chi decide sulla loro destinazione, chi decide sui compiti che vengono attribuiti alle varie tipologie di personale che insistono nel sistema scuola?
- valutazione ed ispezione del sistema: chi valuta quanto viene fatto in ogni istituto o in un’area geografica stabilita? chi può controllare il cosa e il come?
- la destinazione e l’utilizzo delle risorse economiche: quali sono le fonti di finanziamento? chi ne decide la destinazione? chi ne gestisce l’utilizzo?
- il minimo di obiettivi comuni presenti nei curricoli al fine di consentire un riconoscimento non problematico dei diplomi nell’intero territorio;
- il minimo di garanzia a tutela del diritto prima ancora che dovere all’istruzione;
- il minimo di gestione pubblica e centrale del finanziamento, all’interno del quale vengono assegnati budget e spazi di autonomia gestionale alle istituzioni scolastiche periferiche ed ai singoli istituti;
- il minimo di uguaglianza nei sistemi di accesso alla professioni docenti e non che insistono nel sistema scuola (con le debite eccezioni, ad esempio in Inghilterra, dove le assunzioni sono fatte direttamente dal consiglio di amministrazione del singolo istituto).
La mediazione tra livello locale e livello nazionale si è, solitamente, risolta attraverso la negoziazione sui curricoli che, in quota parte, possono ormai venir elaborati ai livelli locali con la necessaria omologazione nazionale mantenuta per consentire il riconoscimento dei titoli e diplomi.
Una sommaria analisi storica comparata mostra infatti come le nazioni storicamente caratterizzate da curricoli scolastici molto flessibili, in gran parte progettati ai livelli locali, tendono adesso a riservare un’area comune, progettata a livello centrale, viceversa i paesi con una forte tradizione centralizzata (come l’Italia) tendono a cedere una parte di sovranità su questo aspetto ai livelli locali.
Le componenti decisionali locali cercano poi di conservare un livello di equilibrio tra le componenti rappresentate (solitamente genitori, insegnanti, rappresentanti dell’istituzione scolastica e, a volte degli alunni e del personale non docente) con qualche eccezione, in pochi paesi, a favore della componente genitoriale.
Queste trasformazioni sono andate di pari passo con una visione sempre più “aziendale” del singolo Istituto e con la conseguente trasformazione della figura del Dirigente Scolastico (per usare un termine italiano) e la richiesta a queste figure di competenze sempre più assimilabili a quelle manageriali senza che vi sia un reclutamento ed una formazione specifica (vale la pena ricordare che ad oggi, in Italia, i dirigenti scolastici sono insegnanti che hanno superato un concorso al quale si accede con il requisito di una anzianità minima di insegnamento).
In alcuni paesi alcune ulteriori derive economicistiche hanno poi compreso, negli organi decisionali locali, rappresentanti delle categorie economiche, non si capisce rispondendo a quale logica ed a quali obiettivi.
2. La comunità educativa
Il livello locale si configura dunque come una “comunità educativa” chiamata ad assumersi una responsabilità in ordine ai bisogni educativi dei propri giovani.
Non è un caso che la denominazione di “comunità educativa” sia utilizzata anche per quelle “strutture socioassistenziali residenziali destinate a preadolescenti ed adolescenti ai quali la famiglia non sia in grado di assicurare temporaneamente le proprie cure, o per i quali non sia possibile – anche per un periodo prolungato – la permanenza nel nucleo familiare originario”. Proprio da questa accezione possiamo individuare una delle caratteristiche fondanti dell’essere una comunità educativa quella cioè di prendere in carico i soggetti giovani che della comunità fanno parte per consentire il loro sviluppo e la costruzione di un percorso personale.
Si tratta, in poche parole, di investire l’intera comunità locale di responsabilità nei confronti degli obiettivi educativi che ci si assume per i propri giovani, dei bisogni educativi che essi esprimono, della cura che richiedono, del consentire e, in qualche modo, proteggere un percorso di crescita e sviluppo.
Se divergono infatti le opinioni sulla minore o maggiore centralizzazione ed autonomia necessarie al buon funzionamento di un sistema scolastico pubblico c’è un sostanziale accordo su un ruolo da assegnare alla comunità locale. Questo ruolo non può certo essere soddisfatto da una quota parte del curricolo nel quale vengono consentite differenze e divaricazioni, tipicità e peculiarità, creatività ed invenzioni locali è piuttosto l’assunzione degli obiettivi e la corresponsabilità che qualifica il ruolo della comunità educativa.
Ma quali possono essere, in questo senso, i livelli in cui una comunità locale non delega totalmente agli istituti scolastici questa propria responsabilità?
Nel 1975 Bertolini già sottolineava l’importanza di costruire e perseguire una “democrazia educativa”, nella quale l’impegno per la formazione dell’uomo e della donna avessero come mira la possibilità assegnata di conoscere se stessi, di de-condizionarsi, di esercitare opzioni.
In un mondo che è, come dice lo stesso Bertolini “dappertutto, ma da nessuna parte” assistiamo ad uno strano fenomeno di dilatazione spaziale e contrazione temporale (sembra cioè che le distanze siano annullate e che il tempo scorra più velocemente), il rischio forte è quello della perdita totale dell’appartenenza ad una comunità e con questa il rischio viene individuato nel non sentirsi in alcun modo partecipe delle istanze culturali e non solo della propria comunità locale. Il fenomeno dell’eccessiva o esclusiva concentrazione sul tempo presente privato contribuisce a sfaldare i legami sociali, la politica diventa, di conseguenza, un’operazione di fascinazione degli individui. In questa condizione emergono falsi bisogni che sono in realtà piccoli interessi temporanei sotto mentite spoglie.
Il compito di una comunità locale si configura, in questo senso, come non semplice: ovvero quello di restituire un orizzonte, di evadere dall’unicità dell’hic et nunc per rendere possibili orizzonti, orizzonti progettuali, orizzonti di sviluppo, orizzonti anche metaforici. Non si può pensare infatti ad un percorso educativo che dimentichi la dimensione della dilatazione, dello spostamento in avanti e della progettualità. La comunità educativa locale deve farsi adulta per consentire la sperimentazione dell’adultità ai propri giovani.
La fuga nello “spazio privato” o, comunque, dallo “spazio pubblico” deve comunque essere sostanziata al di fuori di una motivazione sostanzialmente egocentrica che non può consentire la responsabilità e disponibilità a sentirsi partecipe delle istanze culturali e politiche della propria comunità; che impedisce di assumere un ruolo attivo nell’esercizio della cittadinanza.
Una comunità educativa locale che assume pienamente l’aggettivazione che le viene assegnata opera dunque con una serie di attenzioni a tutti i livelli politici e decisionali locali (ma anche ad esempio all’interno dei movimenti, delle associazioni, degli albi etc…) per le quali è possibile richiamare una serie di piccole proposte facilmente traducibili in prassi operative e in programmazioni politico decisionali serie e concrete:
- attenzione alle proposte culturali che offre: non si può delegare soltanto alla scuola, che è un luogo anche eccessivamente identificato, la produzione e riproduzione delle conoscenze, il livello locale deve mantenere un’offerta culturale variegata, accessibile (sia in termini economici che di comprensione e fruibilità), di differenti tipologie ed interculturalmente centrata;
- sensibilità ed attenzione alla formazione dei giovani uomini e giovani donne come cittadini, come titolari di diritti, doveri e di responsabilità: esempi, percorsi educativi, possibilità di accesso, possibilità di discutere e confrontarsi sui significati che l’essere cittadino assume (in poche parole permettere la costruzione di senso attorno alla identità di cittadino in fieri);
- sensibilità ed attenzione all’esempio che i comportamenti dei leader politici, culturali, economici di un territorio, costituiscono per i giovani;
- attenzione alle proposte “private” sociali quali il volontariato, i movimenti per la pace, per l’ambiente, per la cultura, per un mondo più equo;
- attenzione all’apertura di spazi decisionali per i cittadini e per i cittadini giovani in modo che possano sperimentare ruoli politici;
- attenzione alla creazione di spazi nei quali i ruoli possano essere tentati, esercitati, sperimentati (vale la pena di ricordare il progressivo invecchiamento della nostra classe politica e dei decisori in tutti i settori ed i livelli che stentano a “lasciare la poltrona” forse per timore di non trovare un altro ruolo o di perdere la propria identità interamente giocata sugli spazi di potere che essa può esercitare);
- attenzione a tutti quegli spazi e luoghi nei quali sia possibile esercitare relazioni e comunicazione reciproca, incontrare altri;
- attenzione alla produzione di autonomia e capacità di scelta;
Il diritto/dovere della cittadinanza si inscrive dunque in questa responsabilità che una comunità educativa si assume e nel domandare conto, da parte dei cittadini, ai propri rappresentanti politici ed amministratori locali di scelte che debbono operare in questo senso.
Una difficile coniugazione tra spazio pubblico e spazio privato, tra educazione scolastica ed extrascolastica, tra formale e non formale, in vista dell’acquisizione di una strumentazione autonoma e critica rispetto al presente in cui i ragazzi e le ragazze di oggi si trovano, volenti o nolenti, a vivere.