L’orizzonte sul mare si può guardare da diversi punti sulla corniche Kennedy, appena fuori dalla metropoli di Marsiglia: dal livello facile del primo promontorio, che permette a chiunque di tuffarsi (seppure senza provare nessun brivido), oppure dal “Just do it”, il secondo livello di difficoltà, che presuppone un certo sprezzo del pericolo e garantisce piacevoli scariche di catecolamine che risalgono dal midollo e accelerano il battito del cuore. Si può infine decidere – a condizione di avere buone ragioni per non rimpiangere la luce del Sole se qualcosa dovesse andare storto, o al contrario, se si vuole vivere col martellìo del cuore come playlist nelle orecchie – di gettarsi dal terzo promontorio, quello più alto, che costringe anche i più esperti a calcolare con abilità i tempi di ingresso in acqua per evitare di essere sbattuti dalla risacca contro le rocce aguzze che affiorano a pochi centrimetri sotto il blu.
Chi si tuffa da qui prova il “Face to face”, faccia a faccia con tutto ciò che conta: la destrezza, l’ammirazione degli altri, il coraggio, lo sprezzo del pericolo, la considerazione dei pari, la linea dell’orizzonte che viene ingoiata in un rapido battito d’occhi durante la caduta. Sono però pochi i ragazzi della “banda” che lo arrischiano. Per qualcuno di loro è una necessaria conferma per legittimare un tacito ruolo di dominio, per altri è un’iniziazione. Nessuno, tuttavia, ci prova per caso. In ogni modo, della banda puoi far parte se hai tra i 13 e i 17 anni, se non hai nessuno che sia interessato a sapere a che ora torni a casa, se non hai mai pensato a quello che sarà il tuo futuro, o se pensi che la parola “futuro” vada sempre a braccetto con “fregatura” e allora decidi che non te ne importa niente e che, in fin dei conti, tanto vale prenderla di punta questa vita, che tanto a tutti tocca, prima o poi la stessa, certissima conclusione.
Decidi così di passare i pomeriggi sulla spianata di cemento prospiciente il mare, sperando di far colpo su quella che ti piace per poi baciarla per ore, scandendo il ritmo del tempo solo con sigarette e cibo da portar via caricato in fretta sul motorino. Sbaglieresti però a pensare di essere indifferente agli occhi del resto del mondo; cioè, al mondo di sicuro la tua presenza non fa né caldo né freddo, ma due occhi che studiano i tuoi tuffi e i tuoi goffi abbordaggi ci sono eccome e sono quelli del commissario Sylvestre Opéra, occhi che hanno perso da tempo l’innocenza, capacissimi di mettere a fuoco e zoomare con consumata esperienza, tuttavia velati dalla triste consapevolezza di essere finiti a “sgominare” una banda di ragazzini, cacciarli da una cancrena di cemento e acqua torba che ripullula in un’insenatura che non fa gola a nessuno, ma che un sindaco avvezzo ai giochi di potere ha deciso che deve essere libera e sgombra, per il bene supremo della sicurezza collettiva. A dividere la torre d’avorio di Opéra dalla piattaforma della banda ci sono decenni di differenza, strati incatramati di reciproca diffidenza, fossili di incomprensioni generazionali, ma anche una risorgiva di malcelata invidia mista ad ammirazione che l’adulto nutre verso quelle vite così inconsapevoli, ma proprio per questo libere, autentiche e selvagge.
Lo sguardo del commissario e le sue vicende private, con buona pace del cliché delle rette parallele, tracciano un segmento secante che taglia la corniche e piomba dritto sulla spianata. Queste linee tangenti genereranno narrazioni, complicazioni e partenze, brani di storie che diventeranno toppe di pelle appiccicata e ibridata su ferite grondanti e su concrezioni di sale. Si finisce a dilatare uno spunto narrativo fino allo spasmo, ci sarà chi pensa di poter svoltare e di poter render grazie al Destino, ma questa parte la lasciamo a chi opterà per il “face to face” col romanzo e quindi qui si tacciono gli aspetti relativi alla trama.
Ho amato lo stile franto e segmentato di Maylis de Kerangal, capace di rendere contezza di paesaggi misti a umori, misti a dettagli minimi che, sommati, regalano una visione d’insieme, come di fronte a un gigantesco frottage realizzato con tutto quello che ti capita sotto mano e che è possibile comprendere solo se guardato a debita distanza pur senza troppe ambizioni olistiche. Mi sono chiesto più volte quale potrebbe essere il motivo per cui questo breve romanzo possa fornire appigli e punti di contatto sulla scivolosissima parete della dispersione scolastica e, pur non avendo ancora un’opinione definitiva, direi che può essere un libro per studenti che non cercano risposte dirette a grandi interrogativi, ma che piuttosto siano nella condizione di voler provare ad aderire a una realtà frammentata e disincantata, una porzione di vita sparata al parossismo, una brezza che porta gli schizzi che risalgono dagli scogli, un viatico per chi desidera vivere l’esperienza vicaria di consapevolezza, di congelamento del tempo, di annullamento del peso che si prova nell’affondare la pianta del piede sull’ultimo perimetro utile di terra, sassi e legnetti minuscoli, nel momento che precede lo stacco, prima di guardare giù e vedere le scaglie di luce che, radenti, illuminano l’oro del mare in cui piomberai in un attimo, avendo realizzato che la gravità esiste eccome e che non è davvero l’unica forza che ti trascina verso il fondo, né la più potente.
Recensione a cura di David Bargiacchi
- Titolo: Corniche Kennedy
- Autrice: Maylis de Kerangal
- Editore: Feltrinelli 2018
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